[Mondadori, Milano 2008]
Hitler, l’ultimo romanzo di Giuseppe Genna, interamente dedicato alla vita del Führer, si fonda essenzialmente su due errori, uno ideologico, l’altro estetico. Quale sia più grave è difficile a dirsi. C’è da chiedersi anzitutto se abbia senso scrivere un romanzo su una figura storica di tale peso. Cosa sarebbe Guerra e pace se Tolstoj avesse scelto di centrarlo unicamente su Napoleone? Genna obietterebbe – lo deduciamo dall’archivio di appunti allestito nel suo sito (www.giugenna.com) – che il suo intento non era quello di scrivere un romanzo storico, né un romanzo tout court. Quanto si legge è una cronaca costruita in forma paratattica: i capitoli, introdotti da un’indicazione di spazio e di tempo, riducono al minimo le contaminazioni temporali; ciascuno è una sequenza bidimensionale che descrive un momento della vita di Hitler, dalla nascita fino al postmortem.
La regola ferrea cui Genna dice di essersi attenuto è quella di non inventare nulla: «Istruzione per tutti gli scrittori: sia ammainata la finzione, la fantasia, oltre la linea che divide il territorio dal campo di sterminio. Chi non compie quest’opera di testimonianza cieca è osceno. Maledizione su di lui» (p. 553). Se davvero è inammissibile romanzare lo sterminio, perché inanellare le gesta di Hitler? Cosa consente il passaggio teorico e poetico da un’operazione all’altra? Per non scrivere dei campi – allusi nella sezione intitolata Apocalisse con figure – Genna ci “mostra” Hitler e si rifiuta di “spiegarlo”: «Di te non va pronunciata la domanda: perché?» (p. 476).
Hitler non può essere spiegato perché, per Genna, è fuori dell’umano, appartiene a un’altra specie, è una nonpersona, mot-refrain desunto dalla monumentale biografia sul Führer dello storico Joachim Fest. Ecco allora il primo errore del libro: uscire dalla storia e fare di Hitler metafisica, nonostante la voce narrante si premuri di negarlo: «Non sei eroico, non sei tragico, non sei metafisico, non sei grande, non sei memorabile: non sei» (p. 477). Hitler non è tragico perché monolitico e privo di conflitto; non è eroico, ma, suo malgrado, Genna ne fa l’eroe della storia, addirittura un principio negativo da cui origina il Male con la “m” maiuscola.
Maneggiare una categoria come quella del non umano si rivela, sul piano dei concetti, molto pericoloso: è un arretramento che, senza privare la Shoah del suo carattere di specificità assoluta, non ci si può permettere. E se “spiegare” risulta semplificante, resta necessario almeno il tentativo di “comprendere”, cioè allargare il più possibile la correlazione di elementi, la conflittualità delle ipotesi, la nudità dei dati, restando radicati nell’orizzonte degli uomini. Non basta appoggiarsi all’autorità di Lanzmann, più volte richiamata: l’autore di Shoah dichiara l’impossibilità delle spiegazioni eppure ci immerge in un flusso di parole e volti di uomini che furono collocati nel punto estremo dello sterminio, il Sonderkommando, cioè la squadra speciale di ebrei che presidiava camere a gas e crematori. Persino in quella zona ferale non si esce mai dall’umano.
Ammettendo invece che Genna abbia ragione, che dunque Hitler sia stato una bolla vuota venuta dal nulla, quali conseguenze poetiche avrebbe dovuto trarne? Rispondere è impossibile se non in via negativa: il secondo errore del libro è, anzitutto, nel suo stile, che, invece di modulare il non essere di Hitler, ne gonfia la ridondante presenza. Frammentato, dannunziano e triviale insieme, lo stile non è all’altezza dell’errore ideologico del libro e così l’alone mitico di Hitler non ne esce distrutto; i commenti continui dell’autore contraddicono la regola del mostrare senza spiegare, e l’uso del presente non salva dal rischio di fare pornografia del male. Espungendo Hitler dall’unico orizzonte che la storia conosce – quello degli uomini e delle loro esistenze – il libro finisce per acquietarci nell’illusione che nessuno di noi umani abbia più niente a che fare con la Shoah.
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